VOLT, IL CONTE FUTURFASCISTA
“Il genere umano non formando più che una sola
nazione
la guerra sarebbe trasportata al di là dei limiti
terrestri,
contro i probabili abitatori del sistema
planetario”
(Teoria
sociologica della guerra, 1917)
“La Terra era divenuta troppo
stretta
per gli
uomini”
(La fine del
mondo, 1921)
Le teste quadre non riescono a capire
il nostro futurismo reazionario”
(Nova et
Vetera, 1923)
“Il centro delle forze rivoluzionarie
si è spostato da sinistra a destra,
di modo che oggi rivoluzione e reazione fanno un
tutt’uno”
(Programma
della Destra fascista, 1924)
Nel 2197 uno scienziato inventa un materiale
antigravità, la piombide, che permette la costruzione di navi spaziali, le
eteronavi, e l’esplorazione del Sistema Solare. La Terra è diventata invivibile per il degrado ecologico, il
susseguirsi di disastri naturali, l’esaurirsi delle risorse energetiche e la
sovrappopolazione. Nel 2245 si costituisce la Società di Navigazione
Transeterica con lo scopo di costruire una flotta di vascelli spaziali e la
colonizzazione di altri pianeti, in pratica di Giove. Due anni dopo nasce uno
scontro politico-ideologico fra i sostenitori di idee pacifiste e umanitarie e
i teorici di una espansione di tipo imperiale: alla fine l’ideatore della
Società, minato da un grave male, decide di far saltare in aria la sede del
parlamento degli Stati Uniti d’Europa, mentre la flotta interplanetaria, contro
tutti i divieti politici del Consiglio Mondiale, salpa verso le stelle.
Chi è l’autore di questo preveggente romanzo
pubblicato oltre ottanta anni fa in cui si mescolano invenzioni scientifiche,
anticipazioni sociali e polemiche politiche? Forse Hugo Gernsback, il
lussemburghese trapiantato negli USA e che fondò Amazing Stories nel 1926? Forse Edgar Rice Burroughs che non fu
solo il “padre” di Tarzan, ma anche di John Carter di Marte? Forse Philip
Francis Nowlan il creatore di Buck Rogers? No. Allora di certo sarà la trama di
un romanzo di E. E. Smith considerato il “padre della space opera”, l’autore della saga dell’astronave Skylark, la prima a varcare la soglia
del Sistema Solare. Sbagliato.
L’autore di questa pura fantascienza ante litteram è il conte Vincenzo Fani
Ciotti, capo dei giovani nazionalisti romani, conferenziere, giornalista,
diplomatico, poeta parolibero, autore di due importanti “manifesti” futuristi,
di saggi e libri di teoria politica, esponente della “destra” futurista e
fascista, collaboratore de L’Idea
nazionale, L’Impero, Critica fascista, Il popolo d’Italia, Gerarchia, morto
appena trentanovenne di tubercolosi nel 1927, che diede alle stampe La fine del mondo forse nel 1919 in una
edizione che ben si potrebbe ben definire “fantasma” e sicuramente nel 1921 per
i tipi della “Modernissima, casa editrice italiana” di Milano.
Non nell’America della più vasta rivoluzione
industriale del Novecento è apparso questo romanzo che fonde futuribile e
politica, invenzione scientifica e discussione ideologica, ma nell’Italia delle
convulsioni culturali, economiche e sociali del primo dopoguerra, nutrito delle fantasie avveniristiche del movimento
marinettiano e dalla volontà rivoluzionaria di quel momento storico. La fine del mondo, infatti, può leggersi
in filigrana in molti modi diversi, per questo è un’opera importante sotto un
molteplice punto di vista: singolare che sia stata del tutto dimenticata. È
dunque il caso di riproporla e per l’interesse che ha in sé come opera
esemplificativa non solo di un certo modo d’intendere il futurismo, ma anche
come romanzo precursore della moderna fantascienza, e per l’interesse come
documento culturale significativo di quel periodo così turbolento. Forse la rapida,
ancorché intensissima, parabola di Vincenzo Fani Ciotti, lo ha fatto
considerare un personaggio minore nella storia del futurismo (anche se non è
affatto ignorato e anzi viene ricordato dagli specialisti per le sue originali
innovazioni) e del primo fascismo: altrimenti sarebbe accaduto se avesse
continuato a scrivere sulle tribune ufficiali che gli erano state aperte. Anche
perché Fani Ciotti-Volt era un autore di enorme cultura storico-filosofica e di
fluidissima scrittura, come si può constatare dai testi riportati dopo il
romanzo, di idee coerenti e interpretazioni geniali per spiegare il presente in
funzione del nostro stesso passato, con punti di vista originali e proposte
politiche innovative ancorché “estremiste” e ancorate ad un concetto elitario
ed aristocratico di Destra, che però nel suo “realismo” non disdegnava aperture
pragmatiche su altri versanti pur mantenendo fortissime basi idealistiche e
spirituali. Ovviamente, c’è da chiedersi quale sarebbe stata la sua sorte sul
piano culturale, in quanto esponente di un fascismo “di destra”, conservatore e
monarchico, con il prevalere del fascismo “di sinistra”, sindacalista e
repubblicano. Ma questa è una questione diversa e ipotetica.
Sta di fatto che La fine del mondo è un romanzo, che potremmo definire
“futurfascista” - secondo un neologismo dell’epoca - pressoché ignorato, citato
en passant, mai approfondito, sia
nella storia delle origini della fantascienza in Italia, sia nella storia del
futurismo in sé. Un romanzo che segna il passaggio in forma narrativa di
Vincenzo Fani Ciotti dalla cultura alla teorizzazione politica attiva: o per
meglio dire, dato che i futuristi facevano proprio questo, dalla letteratura ad
un impegno politico più concreto, si potrebbe ben dire militante.
Diciamo meglio: La
fine del mondo - come si vedrà più avanti in dettaglio - è la trasposizione
in forma narrativa delle idee esposte nel saggio, di evidente ispirazione
paretiana, Teoria sociologica della
guerra che Fani Ciotti-Volt scrisse tra la conclusione del 1917 e l’inizio
del 1918, ma pubblicato solo nel 1980 da Giancarlo Scriboni, che ne trovò il
manoscritto fra le carte della famiglia nella casa di Viterbo, nel suo libro Tra nazionalismo e futurismo (Marsilio,
Venezia, 1980).
Dopo una iniziale esperienza vicino a Romolo Murri,
il sacerdote scomunicato per il suo impegno politico nel 1909, il ventitreenne
Vincenzo si avvicina ai nazionalisti in seguito alla fondazione della
Associazione nel 1910 iniziando a scrivere per il settimanale L’idea nazionale dal 20 giugno 1911 con
l’articolo Masochismo nazionale; fra
l’ ‘11 e il ‘15 è presidente del Gruppo giovanile nazionalista romano
partecipando alle manifestazioni di piazza contro il cosiddetto “blocco
capitolino” di Ernesto Nathan, il mazziniano sindaco di Roma dal 1907 al 1913. Il “blocco” era formato da social-riformisti, radicali e liberali di
sinistra, ma poiché Nathan era stato Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia
nel 1896-1903 e faceva parte del Consiglio dei 33°, i nazionalisti lo
qualificavano di “radical-massonico”.
Laureatosi, il conte Fani Ciotti entra nel corpo diplomatico come
vice-console a Nizza, ma per un riacutizzarsi del suo male, mai debellato, è
obbligato a soggiornare in un luogo di mare; durante un periodo di
convalescenza, conosce a Viareggio Marinetti e si innamora del futurismo:
pubblicherà nel 1916 per le Edizioni futuriste di “Poesia” un volume di “parole
in libertà e sintesi teatrali”, Archi
Voltaici, ritenuto oggi uno dei più significativi esempi del genere
parolibero, e da quel momento firmerà tutti i suoi interventi giornalistici e i
suoi libri come “Volt” (in precedenza firmava “Vincenzo Fani”). L’impegno
accanto al fascismo ha una data precisa: 25 agosto 1919, quando appare su Il popolo d’Italia una sua lettera a
Mussolini in cui sostiene che contro i partiti clericale e socialista non
bastano gli “interventisti di sinistra”, ma sono necessari “tutti gli
interventisti: dal più reazionario dei nazionalisti al più rivoluzionario degli
anarchici”. Forse aveva visto nella fondazione del Fasci di combattimento e
nella figura di Mussolini quella “nuova aristocrazia rivoluzionaria” e quella
personalità forte che auspicava nella sua (ancora inedita) Teoria sociologica della guerra scritta non molto tempo prima. Con Sindacalismo politico e libertà del
successivo 13 dicembre 1919 inizia la sua collaborazione al quotidiano
mussoliniano. Da allora in poi si farà sostenitore di un “fascismo di destra”, intendendo questa qualifica,
come scrive A. A. Monti, nella introduzione di una sua raccolta postuma di
scritti, così: “Destra per Volt non è una indicazione di vieta geografia
parlamentare, né si confonde con il conservatorismo a substrato economico di
una casta sociale, o coll’anacronismo di rimpianti archeologici... Destra per lui significa: monarchia,
religione, gerarchia, disciplina concorde di individui e di classi, solidarietà
continuata delle generazioni nel tempo; eredità; famiglia; selezione; razza;
dominio; impero... Negazione sdegnosa dei diritti del numero; repressione
paterna, ma seria e inflessibile, delle basse e inconsulte turbolenze del
volgo; reazione intelligente, sistematica, assidua contro il mito bugiardo
della democrazia, contro le aberrazioni di tutte le anarchie, contro tutti i
veleni, contro tutti gli errori!”. A parte il suo riferimento alla più profonda
tradizione cattolica, quella del Sillabo,
fosse vissuto e non fosse morto nel 1927, il conte Vincenzo Fani Ciotti avrebbe
di certo trovato un posto accanto al barone Julius Evola che iniziava la sua
carriera “politica”, cominciando a scrivere i suoi articoli sulla “politica
come potenza” e sull’ “imperialismo pagano”, proprio negli anni a partire dal
1926 su Vita Nova e Critica fascista, e non è azzardato
immaginarsi la sua firma sulle pagine de La
Torre (1930) e di Diorama filosofico
(1934), la pagina culturale de Il Regime
fascista, accanto a quelle di altri aristocratici ed esponenti della Destra
fascista, conservatrice e monarchica, sia italiani che stranieri.
Sicché si comprende il motivo per cui La fine del mondo sia dedicata a Benito
Mussolini, soprattutto se uscita effettivamente nel 1919, anche se la data del
1921, alla vigilia della insurrezione fascista, è parimenti significativa. Per
questo romanzo si pone infatti un piccolo problema bibliografico: Giancarlo
Scriboni nel suo citato Tra nazionalismo
e futurismo. Testimonianze inedite di Volt, l’unico libro che io sappia
interamente dedicato allo scrittore, nella bibliografia che lo riguarda
fornisce questa curiosa indicazione: “Bologna 1919 (esaurito)”, mentre nel
recente Il dizionario del futurismo,
a cura di Ezio Godoli (Vallecchi, Firenze, 2001) alla voce “Fani Ciotti” si
legge al riguardo “Rocca S. Casciano 1919; Milano 1921”, che nella successiva
voce “Fantascienza” si riduce al solo “Rocca S. Casciano 1919”. La pessima
abitudine simil-accademica di non indicare il nome dell’editore rende poco
chiari i riferimenti. Viceversa, Claudia Salaris nella sua Bibliografia del futurismo 1909-1944 (Biblioteca del
Vascello/Stampa Alternativa, Roma, 1988) scheda l’opera di Volt “Modernissima,
Milano, 1921”, e lo stesso fa Pablo Echaurren nel suo documentatissimo Futurcollezionismo (Edizioni Sylvestre
Bonnard, Milano, 2002). E proprio su questa edizione del romanzo - utilizzata
per la presente ristampa - si può leggere un “prima edizione” (p. 6).
Qual è allora la verità? Può essere benissimo
esistita una specie di edizione “fantasma” in minima tiratura esaurita (come
riporta Scriboni), anzi scomparsa? può essersi trattato di un falso annuncio? Spesso
i futuristi lo facevano e del resto a p. 4 della edizione Modernissima sono
indicati come “di prossima pubblicazione” due opere di Volt mai uscite come Un pazzo nel restaurant, novelle e Popolonia, romanzo. A meno di non ritrovare presso qualche iper-collezionista
del futurismo una copia con la data “1919”, non si potrà dare una risposta
definitiva.
Sta di fatto che una edizione 1919 de La fine del mondo non è segnalata dai
regesti dell’epoca (come il Catalogo
Generale della Libreria Italiana compilato da Attilio Pagliani,
Associazione Libraria Italiana, Milano, 1928, vol. 7, Secondo Supplemento
1911-1920, L-Z, dove invece a p. 716 è registrato Archi voltaici), mentre risulta quella del 1921 (sempre nel Catalogo Generale della Libreria Italiana compilato
da Attilio Pagliani, Federazione Nazionale Fascista dell’Industria Editoriale,
Milano, 1935, vol. 9, Terzo Supplemento 1921-1930, L-Z, p. 715). Fatto
singolare, però, nessuna delle due edizioni appare nel Catalogo Cumulativo 1886-1957 del Bollettino delle pubblicazioni italiane ricevute per diritto di
stampa dalla Biblioteca Nazionale di Firenze (Kraus Reprint, Nendeln, Olanda,
1968-9, vol. 41, disponibile in versione CD-Rom sotto la sigla CUBI, Catalogo Unico Bibliografia Italiana
1886-1957), né nell’ICCU, cioè l’elenco in Rete dei libri posseduti dalle
Biblioteche pubbliche e private italiane realizzato dall’Istituto Centrale per
il Catalogo Unico delle Biblioteche italiane e per le Informazioni
bibliografiche del Ministero dei Beni Culturali. Peraltro, ciò potrebbe essere
comprensibile perché tale elenco non è ancora completo e viene aggiornato quasi
quotidianamente man mano che i vari enti riversano i loro cataloghi nel
sistema: infatti di Volt risultano reperibili gli altri suoi libri (Archi voltaici, Programma della Destra fascista, Dal Partito allo Stato) in varie sedi come Firenze, Ravenna,
Livorno, Ferrara, Milano, Modena, Roma, Torino.
Si può aggiungere un particolare curioso tratto dal
romanzo stesso: in esso si cita esplicitamente il Partito Comunista definito
Intransigente (dunque PCI), non quindi genericamente il “comunismo”, termine
usuale all’epoca. Ora, poiché il Partito Comunista d’Italia di Gramsci e
Bordiga nasce con la scissione di Livorno del 21 gennaio 1921, se ne dovrebbe
dedurre che Volt abbia scritto la sua opera dopo
questa data, a meno di non ipotizzare una successiva aggiunta nella edizione
1921 rispetto alla ipotetica del 1919.
Come che sia, questa “visione sanguigna” mescola le
visioni futuriste di Volt e le visioni politiche del conte Fani Ciotti.
La fine
del mondo è anticipatore sotto
molti aspetti, sia riguardo alla sua epoca, sia in confronto alla nostra. Di
certo è il primo romanzo italiano che si svolge nel futuro con una trama
autonoma e completa rispetto alle altre opere avveniristiche dei suoi tempi:
con questo s’intende dire che il testo di Volt non ha la sola funzione di dare
un quadro del futuro come mera contrapposizione al presente attraverso una
serie di descrizioni (monotone) di mutamenti sociali, politici e scientifici
allo scopo di affermare certe teorie o criticare l’attualità, come sono -
soltanto per citare qualche titolo - Nel
2073! di Agostino della Sala Spada (1875), Cento anni dopo. Viaggio fantastico in Oga Magoga di Paolo Tedeschi
(1877), L’anno 3000 di Paolo
Mantegazza (1897) e Le meraviglie del
duemila di Emilio Salgari (1907). Volt ha altri interessi, che sono poi una
specie di messaggio indiretto che si può sintetizzare così: l’audacia di pochi
può avere il sopravvento sulla codardia di molti, e il futuro di un popolo è
nella sua volontà imperialistica ed espansionistica. Tesi esposta storicamente
e sociologicamente nella citata Teoria ed
esplicitata, poi, più concretamente nel Programma
della Destra fascista (1924), là dove identifica le “tre idee-forza della
dottrina fascista” in Nazione,
Espansione, Gerarchia.
Inoltre, ne La
fine del mondo appare per la prima volta un mezzo spaziale, le “aeronavi
eteriche”, creato non per una semplice esplorazione “didattica” del Sistema
Solare, come ad esempio in Dalla Terra
alle stelle di Ulisse Grifoni (1888), o inserito in una trama puramente
avventurosa come in Gli erranti del
firmamento di Gioacchino Astarita (1908), o in un contesto satirico come Gli esploratori dell’infinito di Yambo
(1905), ma per una vera e propria azione di conquista e colonizzazione, quella
del pianeta Giove. In più, l’autore si dilunga abbastanza minuziosamente sul
funzionamento delle “eteronavi” partendo dalla ingegnosa idea della creazione,
da parte del chimico italiano Romeo Assenna, di un metallo, la “piombide” che
ha la caratteristica di venire attratto da parte dei singoli corpi celesti che
lo contengono in minori o maggiori quantità “pure” e quindi possiede doti
antigravitazionali. Qualcosa di complesso che va oltre l’idea del metallo o
della vernice antigravità di Ulisse Grifoni nel romanzo citato (anticipatrice,
peraltro, della “cavorite” di Wells ne I primi uomini sulla Luna, 1901) e dell’
“aerosfera” de Il fascino dell’ignoto di
Anton Ettore Zuliani (1905).
Ancora: è il primo in Italia, ma forse anche
rispetto alla produzione anglo-americana, a porre il problema “etico” di come
si debbano considerare gli abitanti degli altri pianeti: cosa sono i Lemuri
gioviani, questi esseri “feroci e giganteschi”, alti tre o quattro metri, glabri,
monocoli, orecchiuti, ermafroditi e che si riproducono per partenogenesi? Visto
che bruciano e divorano i missionari della Società Teosofica che predicano la
“necessità dell’amore universale”, sono animali o esseri umani? bestie o
creature senzienti? hanno o non hanno un’anima? Sono una “razza primitiva” o
una “razza decadente”?
Temi, sia detto per inciso, che appariranno nella
fantascienza americana solo negli anni Cinquanta e Sessanta in autori come
Bradbury, Simak, Sturgeon e soprattutto James Blish (soprattutto nel romanzo A Case of Conscience, 1958). Di più,
volendo essere proprio pignoli, la fantasia esobiologica del poliedrico conte
viterbese deve registrare alcuni piccoli primati: la descrizione che vien fatta
degli abitanti di Marte, gli “amorfozoi”, come colline rugose e semoventi alte
venti o trenta metri ricorda gli “animali montagna” di un romanzo dello
scrittore francese (di evidente origine italiana) Serge Brussolo, Sommeil de sang (1962), mentre anche la
trovata di vendere come inebriante in capsule l’atmosfera di Venere, rimanda a
una idea solo in seguito sfruttata.
A parte le implicazioni “ideologiche” di cui si
dirà, ne La fine del mondo troviamo
anche echi autobiografici e riferimenti indiretti ai protagonisti del
futurismo. Nell’eroe del romanzo Volt ha sicuramente proiettato se stesso:
Paolo Fonte è uomo d’azione ma inizialmente era un mite autore di “parole in
libertà” ed è “ammalato di petto” (proprio come l’autore), che conoscendo il
suo destino ineluttabile si sacrifica in un beau
geste terribile (che speriamo nessuno voglia accostare a recenti casi di
terrorismo suicida); e proprio come l’autore conosce Marinetti a Viareggio,
Paolo Fonte conosce in Riviera, a Santa
Margherita Ligure, dove sta in convalescenza, un “gigante mulatto”, che guarda
caso ha il nome di Tomaso El Barka, poeta, boxeur, uomo politico che ha
inventato nuove forme di poesia, boxe e di partito: insomma una fusione
linguistico- caratteriale tra Marinetti e il protagonista di Mafarka il futurista (1910), il romanzo-scandalo
prima sequestrato e poi assolto per “oltraggio al pudore”. Inoltre, Marinette (!) la fidanzata di Paolo Fonte risente, nella
sua descrizione piena di francesismi e di sensualità, di una evidente influenza
stilistica della prima produzione letteraria del capo del futurismo.
La chiave “ideologica” del romanzo è evidente e
risente sia dell’esperienza personale dell’autore (come si è ricordato
l’opposizione al “blocco” di Ernesto Nathan, sindaco della capitale, che i
nazionalisti definivano “radical-massonico”), sia il clima degli scontri tra
fascisti e nazionalisti da un lato, comunisti e socialisti dall’altro, con la
contrapposizione di due opposte “visioni del Mondo”. L’Italia nel 1919-21 aveva
alle spalle la vittoria nella guerra contro la Turchia per la Libia e il
Dodecanneso, e la “vittoria mutilata” della Grande Guerra: le passioni erano caldissime.
Si consideri dunque che tipo di società politica
immagina Volt nel 2247: l’Italia è governata da una alleanza fra Massoneria e
Partito Comunista che quattro anni prima hanno espropriato il Vaticano,
costringendo papa Silvestro XX a vivere nell’Agro intorno alla capitale dove si
radunano i suoi fedeli; Roma è anche la capitale degli Stati Uniti d’Europa e
la sede del Parlamento Europeo è stata collocata all’interno della basilica; lo
stemma degli SUE sono due mani che si stringono attraverso un “pentagramma”
formato da due triangoli intrecciati di color verde (un simbolismo più che
chiaro); il presidente degli SUE si chiama Abramo Lattes (il che non può non
far pensare a Ernesto Nathan); la “religione ufficiale dello Stato” dopo un
secolo di pace non è più la cattolica, bensì la teosofia, dato che, scrive con
grande preveggenza Volt, “la immaginosa mitologia occultista rispondeva assai
bene alle aspirazioni di quei tempi, a quel vago desiderio di misticismo di cui
sono assetate le civiltà pacifiche ed opulente e gli uomini che si annoiano fra
gli agi” (il che, a parte quel “pacifiche” sembra una descrizione della
situazione attuale con l’imperversare della New
Age & Affini). L’Italia, inoltre, è la più potente nazione del
Mediterraneo dopo la sua vittoria sull’Impero slavo del Sud (cioè la
Jugoslavia), padrona di gran parte dell’Africa e promotrice di una nuova
Società delle Nazioni espressione ormai di una Federazione Mondiale.
Nonostante ciò, nel suo complesso “il governo
europeo poteva a quel tempo definirsi un comunismo attenuato e borghese” (altra
intuizione) e, proprio per questa commistione ideologica, domina una generale pruderie, tanto che esiste addirittura
un Ministero della Morale Pubblica che si preoccupa di quei “romanzi erotici”
che producono strani effetti sulle “giovanette di buona famiglia” e sulle
“virtuosissime settantenni”! Inoltre, da buon governo massonico-comunista
istituisce collegi di “Figli di Stato”.
Singolare, peraltro, che il neo-futurista Volt non
si dilunghi, in descrizioni d’ambiente, in realtà non troppe, e quindi
sull’aspetto esteriore, per così dire, di questa società del 2247: nessun
riferimento particolareggiato agli edifici e all’urbanistica, nessuna
descrizione di mezzi di locomozione, nessuna divagazione sul vestiario, proprio
lui che ha scritto due fondamentali manifesti futuristi, ampiamente citati
dagli storici del movimento: quello dell’architettura e quello della moda
femminile! Anzi, si dovrebbe dire, la moda è quasi ottocentesca, se si
considera quell’accenno a Marinette in un locale di Nizza (città dove il conte
Fani Ciotti fu vice-console d’Italia), a quelle sue “gambe incrociate al di
sotto del tavolo, scoperte sino all’altezza dei polpacci”... Addirittura!
Ma un secolo di pace ininterrotta si fa sentire:
“soppresso il dinamismo della concorrenza internazionale i popoli dell’umanità
si avviavano tranquillamente, simili a greggi ben pasciuti, sotto la guida di accorti
pastori, verso le pigre fonti del benessere”. Ma tutto ha un limite: “L’umanità
era stanca di esaurirsi nella contemplazione del proprio ombelico”, sicché,
“come spesso avviene, un abisso profondo si era formato fra le nuove correnti
che agitavano il paese e coloro che il paese pretendevano di rappresentare”.
Cioè Massoneria, Teosofismo e Comunismo.
Questi dissidenti sono catalizzati dal Partito
Dinamico di El Barka che è “erede del Partito Futurista Nazionale” e trovano un
punto di riferimento in Paolo Fonte “celebre sportman ed esploratore”,
nonostante la tubercolosi, che intende colonizzare Giove, crea una “Compagnia
di navigazione transeterica” e comincia ad allestire una flotta fra Tivoli e
Roma: ferme al suolo le “eteronavi” assomigliano a “mostri paleozoici”.
È esattamente quanto esposto in Teoria sociologica della guerra, là dove
Fani Ciotti-Volt afferma che “una società internazionale degli Stati”, cioè una
Federazione Mondiale a base democratica “soccomberebbe all’urto di rivoluzioni
interiori e di guerre intestine” a meno che l’umanità non rinunci a passioni o
bisogni, venga abolito lo Stato, ovvero che - attenzione, siamo nel 1917-1918!
- “l’umanità trovi un campo aperto alla propria espansione al di fuori dei
limiti del pianeta terrestre. Il genere umano non formando allora più che una
sola nazione la guerra sarebbe trasportata al di là dei limiti terrestri,
contro i probabili abitatori del sistema planetario”. È in sintesi la trama - e
la giustificazione - de La fine del mondo.
Al limite, possiamo anche pensare che l’idea in nuce del romanzo sia venuta all’autore in quello stesso periodo
confrontando i due anni: 1917 e 2247.
Dunque, “la Terra era divenuta troppo stretta per
gli uomini”, almeno per certi uomini come Paolo Fonte, El Barka e i loro amici:
una frase che fa pensare al titolo di una raccolta di racconti di fantascienza
di Isaac Asimov del 1957, Earth is Room
Enaugh, e a quello di una storia in essa contenuta, Space Living, che trasmettono lo stesso concetto. Ed è “troppo
stretta” anche per le condizioni (ecologiche si direbbe oggi) in cui si trova:
ottanta anni fa Volt parlava già di “progressive condizioni di inabitabilità
del globo terrestre” con l’esaurimento del carbone, raccolti sempre più poveri,
eruzione di gas sotterranei che rendono inabitabili vaste aree, movimenti
sismici che provocano la sommersione di Spagna e Sahara con il Marocco ridotto
a un’isola. Nonostante che il carbone sia stato sostituito dalle “correnti
magnetiche” e dalla “energia termica del sole” e gli scienziati,
“trasformando uno nell’altro i corpi
creduti semplici”, abbiano creato nuove materie per “soddisfare i bisogni degli
uomini”, il pianeta è vieppiù invivibile e c’è chi pensa di “abbandonare definitivamente
la Terra”.
È allora
necessario emigrare su Giove e colonizzarlo, ma per ottenere questo scopo,
afferma Paolo Fonte, “occorre sterminare metodicamente la razza dei Lemuri”. Il
che non solo suscita lo “scandalo enorme della stampa democratica e
umanitaria”, ma una grave crisi politica.
Infatti, la polemica passa dal piano etico-morale a quello ideologico, con
un metodo assolutamente identico a quello dei nostri giorni: non si tratta solo
del problema se i Lemuri siano bestie o esseri intelligenti, ma, come proclama
il Partito Comunista: “A nessun costo permetteremo che si sparga il sangue di
quegli autentici proletari che popolano la superficie del pianeta Giove”. La
sua richiesta al governo è di “socializzare l’industria delle costruzioni
eteriche” in modo che “le eteronavi devono essere, come le case, di proprietà
dello Stato”, e ciò per impedire la costruzione della flotta e la sua partenza
per la conquista di Giove. Il governo massonico esaudisce i desiderata politici del Partito
Comunista Intransigente e quelli umanitari della Società Teosofica.
Nonostante la malattia, Paolo Fonte ed i suoi
amici, come si sul dire, “non ci stanno”: con discorsi contrapposti di fronte
al Parlamento si scontrano le due concezioni, quella di Lattes e quella di
Fonte. Dice il primo: “L’amore è la più grande forza. Questa forza pacifica
finirà per aver ragione anche dell’innata rozzezza dei Lemuri (...) Noi
finiremo per stringere con tutte le razze planetarie un patto di alleanza”.
Dice il secondo: “Nostro Dio è colui che adoriamo a fronte alta, con le armi al
fianco, in posizione di attenti (...) Dio è la grande Bomba che esplode al
centro dell’universo per l’eternità. Noi siamo i suoi frammenti” (volendo, si
potrebbe vedere in questa affermazione addirittura un’anticipazione della
teoria del Big Bang, come origine
dell’universo, elaborata solo nel 1946 da George Gamow, ma così definita in
senso polemico dal suo oppositore Fred Hoyle). Ovviamente, Fonte andrà in
minoranza.
Non si può non notare in questo contrasto -
anch’esso attuale - il risorgente violento dibattito sul colonialismo europeo e
italiano: appena dieci anni prima c’era stata la guerra italo-turca, come si è
ricordato. Ma quel che colpisce in Volt sono i risvolti sociali, che
riecheggiano le polemiche sia futuriste che fasciste, quando descrive, di
fronte alle idee e alle azioni dei giovani rivoluzionari guidati da El Barka e
Fonte, gli impiegati statali con “consorte impacciata dalla veste festiva e
dalle scarpe troppo strette”, e i “buoni borghesi educati fin dall’infanzia
all’orrore della violenza sotto tutte le sue forme” che inorridiscono “allo
spettacolo della novissima barbarie che erompeva nel mondo”.
Ma questa “barbarie”, cioè quella che teorizza -
proprio come nel Manifesto di fondazione del futurismo (1909) si “glorifica la
guerra sola igiene del mondo” - “la guerra come valvola di sicurezza
dell’umanità”, è da condannare, mentre l’eventuale invio di “un corpo d’armata
internazionale per domare i ribelli” deciso dal Congresso Mondiale di
Washington è da approvare... Ricorda niente questo particolare?
È infatti da sottolineare che Volt, pur teorico
dell’imperialismo, è assolutamente contrario ad una “federazione mondiale” che
riunisca “in una sola collettività tutti gli abitanti della Terra” secondo
quanto vagheggerebbero i pacifisti, come scrive nella sua Teoria sociologica della guerra: essendo essa a mera base
democratica, proprio perché non la sostiene la “forza di un potere superiore”,
cioè imperiale, si disgregherebbe a causa di un potere centrifugo, secondo la
legge vichiana dei ricorsi storici.
Cosa del tutto diversa è invece l’Impero. Infatti,
scrive Volt nella Teoria, “ogni Stato
forte e vitale tende a crearsi una sfera di dominio politico nel mondo, cioè un
impero”, sicché “alle guerre di formazione nazionale succedono le guerre di
predominio imperialistico”. Come, appunto, è ai suoi occhi la guerra del 1914,
e come appare agli occhi del personaggio del suo romanzo la guerra da portare
su Giove. Necessità in cui si fondono la tesi della disgregazione di una
“federazione mondiale” democratica come quella che domina la Terra del 2247, e
la tesi della “guerra imperialista” per ampliare il dominio non più sul mondo
ma su un altro mondo. Anche perché,
afferma Volt, “la guerra rappresenta come la valvola di sicurezza che impedisce
il prorompere delle passioni individuali nel seno della collettività statale”:
sono le identiche parole riprese ne La
fine del mondo e riportate in precedenza.
Di conseguenza, teorizza Paolo Fonte al cospetto
degli eurodeputati, “la Pace assoluta è sinonimo di sfacelo e di morte (...)
Perché combattere, non vivere è necessario (...) La guerra per la vita. Non per
una vita qualunque, come voi l’intendete, ma per una forma di vita superiore.
Combattendo, l’umanità assurgerà ad una sfera più alta della storia”. Sicché
“la ragione etica della conquista di Giove” è che “la guerra, combattuta fianco
a fianco da tutti i popoli della Terra, darà al genere umano la coscienza della
propria unità”. Unità di intenti, di volontà e di spirito, non certo una unità
di tipo popolare e democratico. Infatti, per i “nuovi barbari”, “non vi è
fraternità all’infuori della fraternità d’armi”: nella sua Teoria non aveva già scritto Volt che “uno Stato forte non può
essere che uno Stato guerriero e aristocratico”?
Per i falsi umanitari e pacifisti, invece, spiega
Fonte, ci sono “le parole ‘libertà, progresso, giustizia’, queste miracolose
caramelle che passano senza mai squagliarsi di bocca in bocca, in tutti i
Parlamenti della Storia”. È quello che oggi si definirebbe l’ipocrisia del “buonismo”
e del “politicamente corretto” che non guarda in faccia la realtà: infatti in
mezzo secolo di pace, come rimarca Paolo Fonte, ci sono state 38 rivoluzioni
(un eufemismo per “guerre”) e cinque milioni di morti: occorrerebbe fare un
conto delle rivoluzioni e dei morti dei cinquant'anni di “pace” nella seconda
metà del Novecento dopo la vittoria delle democrazie occidentali e della
dittatura orientale, per vedere se anche in questo caso Volti si è avvicinato
alla realtà (per lui ancora) futuribile. La più singolare delle rivoluzioni è
stata, nel suo romanzo, quella australiana con la conquista da parte dei
giapponesi del Quinti Continente dove sono emigrati divenendo poco alla volta
maggioranza...
Nel contrasto Lattes/Fonte l’autore presenta anche
il contrasto, da lui teorizzato sempre in Teoria
sociologica della guerra, fra concezione classica e concezione
giudaico-cristiana dello Stato: la prima ha per fondamento l’imperio
(all’interno con la giustizia, all’esterno con la guerra), la seconda ha per
fondamento la salvezza delle anime dei suoi cittadini, la loro felicità, “il
miglior benessere possibile degli individui che lo compongono” e, trasmigrando
nel moderno “Stato democratico”, l’amministrazione, il servizio pubblico, la
giustizia come “clinica sociale” (“in pratica il suo compito si riduce ad
assolvere il maggior numero possibile di delinquenti”...).
Non solo, questa Teoria, scritta con logica stringente e con dovizia di cultura
storico-giuridica, che già 85 anni fa affrontava realisticamente problemi con
“pacifismo”, “non resistenza al male”, “guerra alla guerra”, le contraddizioni
delle tesi democratico-pacifiste e soprattutto i concetti, attualissimi, di
“guerra giusta” e “guerra ingiusta”, ci fa capire come Paolo Fonte intendeva la
guerra da portare sul pianeta Giove: essa è necessaria perché, spiega Volt nel
suo saggio, “i bisogni dello Stato saranno illimitati e crescenti in contrasto
necessario con gli interessi illimitati e crescenti degli altri Stati. Da
questo contrasto nasce la guerra”. Poiché la Terra “è divenuta troppo stretta”
e ormai invivibile, è necessario emigrare su Giove. Tesi di una minoranza
attiva, di “una classe dominatrice in formazione” (Teoria), di una élite in
contrasto con le tesi umanitarie, pacifiste e democratiche del governo europeo
diretta emanazione di una concezione giudaico-cristiana dello Stato, così come
sopra definito.
Quello vagheggiato da Paolo Fonte è in sostanza uno
“Stato reazionario-futurista”: lo stesso descritto da Volt ad esempio
nell’articolo Nova et Vetera del
1923, dove, con grande lucidità, compie una sintesi di passato e di futuro, di
tradizione e progresso con la condanna non della scienza in sé, ma della
“scienza-religione”, con termini che si potrebbero definire molto vicini al
nostro attuale modo di sentire. E, sempre nelle parole del protagonista de La fine del mondo vi sono gli echi
imperialisti che Volt propagandava come scrittore politico su vari giornali e
libri, sino ad un ampio saggio, Pedagogia
imperiale, apparso su Gerarchia
circa un anno prima della morte, in cui predica l’assunzione di un “dominio di
se stesso” e “delle proprie passioni” prima di assurgere a compiti imperiali
grazie ad una élite, ad una
“aristocrazia disinteressata” usando concetti che non è improprio definire
“evoliani”. È, in fondo, la descrizione di Paolo Fonte e dei suoi: un gruppo
che riunisce il meglio delle qualità della Nazione che - si badi bene - Volt
non esalta aprioristicamente in quanto tale, ma solo nei suoi aspetti migliori,
polemizzando abbastanza duramente con tutti coloro i quali esaltavano anche i
nostri peggiori difetti (Strapaese), come scrive in modo esplicito in Nazionalismo e cultura, un testo
sicuramente del 1926-7, pubblicato nella raccolta postuma Dal Partito allo Stato (1930), dove risalta tutta l’intelligenza
politica e culturale del conte futurfascista, anche qui promuovendo una
battaglia che si può mettere senza difficoltà accanto a quella che conduceva
Julius Evola per una “rettificazione” dei difetti degli italiani e del
fascismo.
In questa situazione matura non solo la rivolta del
gruppo dei rivoluzionari, che vogliono impadronirsi di Giove per dare un futuro
all’umanità, ma anche il dramma personale di Paolo Fonte, volitivo ma malato, e
il suo rapporto con Marinette. A causa del “mal di petto” Paolo si sente “un debole, un vinto” e -
futuristicamente, si deve dire considerando che nel Manifesto del 1909 si
teorizzava “il disprezzo della donna” -
“l’idea di ‘essere consolato’ da una donna feriva il suo amor proprio”.
Il suo sentimento per Marinette è vissuto fra contrasti, vicinanze e
lontananze, che si risolveranno soltanto nella conclusione finale, nel duplice
e unanime sacrificio dei due amanti. Il concetto che sta alla base di questa
decisione è il modo in cui si può e deve vivere una vita. Pensa Paolo: “In fin
dei conti cosa poteva succedergli? Morire? tanto meglio! Meglio evitare di
spegnersi a poco a poco, fra le paure e i riguardi, ignobilmente (...) Meglio
morire a bordo di un’eteronave, lontano, lontano dalla Terra. Meglio essere
scagliato, cadavere, fuori dalla nave, e precipitare senza fine, come un
bolide, nello spazio immenso...” (una immagine, sia detto fra parentesi, che fa
venire subito in mente Odissea nello
spazio di Kubrick, 1968).
Ma la situazione politica e personale precipita. Il
sacrificio deve essere un altro, tale da permettere la partenza delle
“eteronavi”: “La vita! ma era una vita la sua? Valeva la pena di trascinare
ancora per le vie del mondo quella sua miserabile carcassa esangue? Perché,
perché vivere ancora?” Assumerà sulle sue spalle, dunque, un compito altrui. E
così si compie il supremo gesto di Paolo con accanto Marinette: “Essi non
sentivano più. Non vedevano più. Erano già entrati, con il loro amore e il loro
dolore, oltre i confini della morte”. È una conclusione tipicamente futurista:
non si afferma forse nel Manifesto di fondazione: “Noi vogliano glorificare il
gesto distruttore dei libertari, le belle idee per cui si muore...”?
Distrutto il Parlamento Europeo, “un enorme pino,
un gigante nero di fumo e di polvere, levava la sua fronte minacciosa fino allo
zenit”. E non si può non pensare all’equivalenza tra la forma del “pino” e
quella del “fungo” (atomico). Quindi, disobbedendo agli ordini dei governi
europeo e mondiale, “la grande flotta, ideata da lui, Paolo, per la conquista
dei cieli, avrebbe salpato per i lidi di incogniti universi”: è “una schiera di
titani pronta a dare l’ultima scalata al regno delle stelle”. E così avviene:
le navi eteriche “enormi tanks variegate”, rettangoli di 600 metri di lunghezza
per 120 di larghezza, “otto losanghe violente di colore, verdi, rosse, gialle,
sfondavano con brutalità geometrica la volta azzurra del cielo, che le
macchiava in alto, rimpicciolendo rapidamente”. Una descrizione che al moderno
lettore di fantascienza fa venire in mente le astronavi disegnate su
enciclopedie e poi su copertine di riviste e di libri da alcuni illustratori
proprio italiani degli anni Settanta e Ottanta come Franco Storchi e
Michelangelo Miani, specializzati appunto in forme geometriche e coloratissime.
E’la fine del
mondo? Piuttosto, è la fine di un mondo, quella auspicata nel suo
romanzo dal conte futurfascista Vincenzo Fani Ciotti, in arte Volt. La fine del
mondo della ipocrisia borghese, della demagogia comunista, del pacifismo
massonico, del buonismo teosofico. E la nascita di un nuovo mondo, magari Altrove, magari sui “lidi di incogniti
universi”, magari nel “regno delle stelle”, magari su Giove, grazie alla
volontà di potenza delle élites
rivoluzionarie, delle “aristocrazie disinteressate”, dei “nuovi barbari”,
accomunati da una “fraternità d’armi”, che non hanno paura di “sfondare la
volta azzurra del cielo” con le loro “eteronavi”.
Sull’onda della teorizzazione marinettiana, Volt ne
realizza prima la giustificazione sociologica e poi la versione romanzata: “Noi
siamo sul promontorio estremo dei secoli!... Perché dovremmo guardarci alle
spalle, se vogliano sfondare le misteriose porte dell’Impossibile? Il Tempo e
lo Spazio morirono ieri. Noi viviamo già nell’assoluto, perché abbiamo già
creata l’eterna velocità onnipresente”.
Gianfranco
de Turris
Roma, gennaio 2003
Per
le informazioni e il reperimento di dati e materiali, ringrazio Paolo Cortesi
della Biblioteca Civica di Forlì, Claudio Gallo della Biblioteca Civica di
Verona, Claudia Salaris e Ernesto Vegetti.